RINNOVO PIATTAFORMA CONTRATTUALE STATALI

Cari Statali, sognatevi i rimborsi della Consulta (di Franco Mostacci)

Fonte: ilfattoquotidiano.it

Sorprese Il blocco degli stipendi era incostituzionale. Ma dopo la sentenza arriveranno pochi spiccioli. E chi ha salari medi ci rimette: perderà gli 80 euro del bonus di Renzi.

L’ultimo contratto collettivo dei pubblici dipendenti è scaduto nel lontano 2009. Il rinnovo per il triennio 2010-2012 fu cancellato con il decreto legge 78 del 2010 (allora c’era il governo Berlusconi) e la norma piacque tanto ai governi che si sono succeduti, che hanno pensato bene di estenderla al 2013-2014 (governo Letta) e al 2015 (governo Renzi), per la parte economica.   SU QUEST’ULTIMO PUNTO è intervenuta la Corte Costituzionale che, il 24 giugno scorso, ha dichiarato l’illegittimità sopravvenuta del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico, con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza.

Prima di assumere qualsiasi decisione, il governo dovrà attendere il deposito della sentenza della Corte, che dovrebbe avvenire entro venti-trenta giorni ma potrebbe slittare anche a dopo le ferie estive. Diversi sono poi gli ostacoli normativi da superare, prima di riavviare la trattativa.   Prima di tutto il nodo dei comparti di contrattazione, che con il decreto legislativo 150/2009 (noto come “legge Brunetta”) non possono essere più di quattro. A deciderne la composizione, a meno che non intervengano novità con la legge delega di riforma della Pubblica amministrazione, sarà un accordo quadro tra Aran, l’agenzia che rappresenta il governo nelle trattative sui contratti, e organizzazioni sindacali. In pericolo i comparti di minori dimensioni, tra cui gli enti pubblici di ricerca, che sembrano essere destinati al sacrificio.   Il secondo aspetto riguarda la copertura finanziaria che va prevista nella legge di Stabilità. Per il 2015, qualora ce ne fosse bisogno, il ministero dell’Economia potrebbe intervenire con una manovra di assestamento di bilancio, ma per il biennio 2016-2018 se ne dovranno occupare prima la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza prevista per settembre e, poi, la manovra di bilancio di fine anno. Questa uscita aggiuntiva, a meno che non sia compensata da entrate fiscali di pari importo, crea un problema ai conti pubblici impegnati in uno sforzo di rientro nei parametri concordati in sede europea su deficit e debito.   IL COSTO NETTO del rinnovo del contratto del pubblico impiego è, comunque, assai modesto. Considerando che le retribuzioni lorde nel 2014 erano 114,3 miliardi di euro, un’aliquota marginale di tassazione mediamente al 30 per cento e le percentuali di adeguamento di 0,6 per cento per il 2015, 1,1 per cento per il 2016, 1,3 per cento per il 2017 e 1,5 per cento per il 2018 definite dalla variazione dell’indice dei prezzi al consumo armonizzati al netto dei prodotti energetici importati, dalle casse dello Stato usciranno a regime (cioè nel 2018) poco più di 3,6 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti i maggiori contributi sociali da versare all’Inps.

UNITÀ SINDACALE

Unità sindacale: il modello dei chimici (di Enrico Marro)

Fonte: nuvola.corriere.it

I sindacati dei chimici provano a dare l’esempio. Preoccupati che le aspre divisioni tra la confinante categoria dei metalmeccanici si ripercuotessero su un settore che invece si è contraddistinto da sempre per l’unità sindacale, i leader di Filctem-Cgil, Femca-Cisl e Uiltec-Uil hanno raggiunto nei giorni scorsi un’intesa, non solo sulla piattaforma per il rinnovo del contratto, ma anche sul regolamento per gestire la trattativa e le conclusioni della stessa.

Vincolandosi – è questo il passaggio decisivo – «ad una gestione e ad una conclusione unitaria dei rinnovi contrattuali». Emilio Miceli (Filctem), Sergio Gigli (Femca) e Paolo Pirani (Uiltec) hanno preso un simile impegno firmando un Regolamento per il rinnovo dei contratti nazionali che in sette cartelle disciplina nel dettaglio tutte le procedure e gli organismi per condurre le trattative dall’inizio alla fine in un percorso di costante interlocuzione dei vertici con le strutture di base.

Anzi, spiega Pirani, la novità è che la delegazione trattante, «sarà composta in maggioranza, per il 60%, da membri eletti da tutti i lavoratori e per il 40% da membri scelti dalle tre segreterie in proporzione al peso di ciascuna sigla».

Il regolamento affida a questa delegazione l’approvazione dell’ipotesi di accordo che poi sarà sottoposta al via libera delle assemblee aziendali e territoriali. Insomma, un percorso che prevede un coinvolgimento dei lavoratori e il protagonismo dei delegati eletti, per restare uniti, ed essere più forti. Un modello che potrebbe essere imitato dai metalmeccanici se Fiom, Fim e Uilm abbandonassero le rispettive rigidità.

Ciò che sta avvenendo sulla rilevazione delle deleghe sindacali presso l’Inps sembra dimostrare che in Italia, senza una legge, sarà difficile affermare un sistema per appurare la reale rappresentanza delle organizzazioni sindacali. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno firmato più di un anno e mezzo fa un accordo sulla rappresentanza che, come primo passo, prevede l’accertamento del numero di iscritti a ciascuna organizzazione.

Il 16 marzo scorso i firmatari dell’accordo hanno sottoscritto una convenzione con l’Inps secondo la quale, dal mese di maggio 2015, le aziende associate a Confindustria avrebbero dovuto

comunicare mese per mese, attraverso il modello Uniemens, quello utilizzato per i versamenti

contributivi, il numero di deleghe alla trattenuta sindacale per ogni organizzazione.

Ci si aspettava quindi che a giugno l’Inps diffondesse, come promesso, gli attesi dati sugli iscritti nelle varie categorie. Invece, dopo una riunione con gli stessi sindacati, l’Istituto ha spiegato, in una nota, che bisognerà attendere qualche mese. Essendo infatti la comunicazione delle deleghe non obbligatoria ma «volontaria» – e non potrebbe essere diversamente trattandosi di un accordo e non di una legge – per ora sono poche le aziende che lo hanno fatto.

Secondo indiscrezioni sarebbero solo una su quattro. Aspettiamo. Ma è chiaro chese sarà un flop, bisognerà interrogarsi sulla rappresentatività non solo dei sindacati, ma anche della Confindustria.

RINNOVO CONTRATTI

Sui contratti l’incognita comparti (di Augusto Cirla)

fonte: ilsole24ore.com

Personale. La ripartenza delle trattative impone anche di destinare alla produttività la «quota prevalente» delle risorse decentrate

La sentenza della Corte costituzionale che ha salvato il congelamento dei contratti pubblici solo per il passato impone di riaprire la stagione delle trattative, come chiedono in modo sempre più pressante anche i sindacati. Far ripartire una macchina ferma da cinque anni, però, non è impresa semplice, anche perché il blocco contrattuale è arrivato praticamente in contemporanea con l’attuazione della riforma Brunetta del 2009 che da allora è rimasta di fatto in sospeso e ora riappare in un contesto radicalmente mutato.

Il primo problema è quello dei comparti nei quali è divisa la pubblica amministrazione, che per la legge sono quattro ma per i sindacati sono dodici. Detta in maniera meno brutale, la riforma Brunetta ha previsto di dividere il mondo del pubblico impiego in quattro grandi settori: autonomie locali e camere di commercio, regioni e sanità, scuola e, infine, “resto del mondo”. Questa geografia, pensata per snellire l’impianto delle trattative fra amministrazioni e parti sociali, non è però mai riuscita ad arrivare al traguardo operativo, perché i matrimoni fra i dodici vecchi comparti non si sono mai celebrati. Sembra un dettaglio tecnico, ma così non è. Cambiare i confini dei comparti impone prima di tutto di calcolare quali sindacati sono “rappresentativi”, e quindi legittimati a sedersi al tavolo delle trattative (e a spartirsi distacchi e permessi), e quali non lo sono. Tutto dipende dalla media fra la quota di iscritti e quella dei voti ottenuti nelle elezioni dei rappresentanti, che deve raggiungere almeno il 5% all’interno del comparto: se le dimensioni del comparto crescono, ovviamente, diventa più difficile superare l’asticella, e tante delle sigle sindacali “minori” (ma anche qualcuna delle “maggiori”, in qualche caso) rischiano di essere tagliate fuori. L’esempio più evidente è quello della presidenza del Consiglio, che con le vecchie regole rappresenta un comparto a sé con meno di 2.300 persone e dovrebbe unirsi a ministeri, agenzie fiscali, enti non economici e così via in un nuovo maxi-comparto con centinaia di migliaia di dipendenti. 

Ma non sono solo le fusioni a modificare tutti i parametri. Le Regioni, poco meno di 80mila dipendenti, dovrebbero per esempio abbandonare gli enti locali per confluire con la sanità (oltre 600mila persone): è un passaggio quasi scontato se si pensa all’architettura istituzionale e alla divisione delle competenze fra i diversi livelli di governo, che però si trasforma in un rompicapo se la si guarda dal punto di vista sindacale.

Non è però solo una questione di sigle e rappresentanze. Fra i comparti si sono sviluppate negli anni differenze anche importanti nella struttura degli stipendi, e ancora una volta la presidenza del consiglio può venire in aiuto per capire l’entità del problema: secondo la relazione della Corte dei conti al Parlamento sul pubblico impiego, lo stipendio medio di un impiegato di Palazzo Chigi vale poco meno di 43mila euro lordi all’anno, mentre nelle agenzie fiscali ci si ferma poco sotto quota 35mila euro a e nei ministeri non si va oltre i 27.500 euro. Riavvicinare queste medie non è affare semplice, soprattutto in tempi di magra per la finanza pubblica che sicuramente non può mettere molte risorse sul tavolo del rinnovo contrattuale.

Il problema economico riguarda anche due altre regole della riforma Brunetta, accolte da un grande dibattito al momento della loro approvazione e poi subito accantonate con il congelamento dei contratti. Si tratta delle regole “meritocratiche” che chiedono di dividere il personale in tre fasce, assegnando il 50% del trattamento accessorio destinato alla perfomance individuale al 25% dei dipendenti (la prima fascia) e l’altro 50% al 50% del personale, collocato in seconda fascia, lasciando all’asciutto l’ultimo 25% dell’organico, caratterizzato dalle performance meno brillanti. Per garantire l’efficacia di questo sistema, la riforma del 2009 imporrebbe di dedicare alla performance individuale la «quota prevalente» del trattamento accessorio. A tutto questo dovrebbe pensare la contrattazione integrativa, ma se il rinnovo delle intese nazionali non riuscirà a mettere sul piatto nulla più che l’adeguamento all’inflazione dell’ultimo anno (al momento l’indice Ipca è dello 0,4%) sarà difficile far partire una redistribuzione di questo genere, che richiede anche l’adozione condivisa di modelli di valutazione ancora tutti da costruire.

CORTE DEI CONTI

Corte dei Conti in ordine sparso (di Tiziano Grandelli)

fonte: ilsole24ore.com

In attesa delle istruzioni definitive, il fondo 2015 non trova pace: questa volta è la Corte dei Conti Abruzzo, delibera 179/2015, a cercare faticosamente di fare chiarezza su come si applica a regime il taglio previsto dall’articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010. I chiarimenti non sono di poco conto anche se poi nell’esempio i magistrati sembrano sembra scivolare sui calcoli. I punti fermi, e in parte nuovi, sono i seguenti: il fondo 2015 in prima istanza deve essere calcolato con le regole contrattuali; successivamente dovrà essere storicizzata la decurtazione effettuata negli anni di vigenza dei limiti (quadriennio 2011-2014); non si applica più il limite del fondo 2010. In termini di principio si tratta di un importante passo in avanti anche se rimane ancora sul tappeto la definizione delle modalità di calcolo dei tagli che dovrebbero essere pari «alle decurtazioni effettuate nel periodo 2011-2014» e non solo quelle del 2014 perché «la norma fa riferimento al periodo precedente, non all’esercizio o anno precedente». Sul punto però la Corte distingue in due parti le decurtazioni: quelle correlate alla riduzione del personale in servizio e quelle che riportavano il fondo al 2010. Per le prime osserva come le modalità di calcolo «non possono portare a considerare ripetutamente, in più anni, le medesime cessazioni» e quindi si deve applicare solo la riduzione 2014. In merito ai tagli operato annualmente per riportare il fondo al limite del 2010, sostiene al contrario che debbano essere sommati. Nell’esempio il fondo 2010 era 1.000 e negli anni successivi aumentava a 1.100, 1.120, 1.190 e 1.210, quindi la riduzione da storicizzare a tale titolo è pari a 100+120+190+210. Il metodo di calcolo evidenzia chiaramente una duplicazione di tagli che contraddice proprio i principi elencati nella pronuncia: evitare duplicazione dei tagli e arrivare a fondi negativi. In questo modo si arriva ad azzerare le risorse a disposizione. Peraltro la posizione risulta incomprensibile proprio per il fatto che questi incrementi riguarderanno sicuramente la Ria e quindi l’importo di 120 del 2012 è sicuramente pari alla Ria di 100 del 2011 e 20 del 2012. Di fatto la decurtazione da storicizzare sarà pari alla decurtazione fatta nel 2014 anche se l’infelice dettato normativo sembrerebbe andare in direzione opposta. È evidente che, con i calcoli proposti dalla delibera, il fondo di quell’ente sarebbe sicuramente in squilibrio in quanto l’importo residuale difficilmente potrebbe coprire gli utilizzi stabili (progressioni e comparto). Un secondo chiarimento risulta ancora più rilevante: dal 2015 «la limitazione si sposta dal tetto alle decurtazioni, che diventano permanenti e non più recuperabili». Questo significa che, una volta calcolata la riduzione da storicizzare, il fondo 2015 potrà aumentare con le regole contrattuali arrivando anche a superare l’importo 2014. In pratica quali sono queste misteriose «regole contrattuali»? In primis si tratta della Ria dei cessati dal 2015 in poi, che però è ben poca cosa. Il grosso è contenuto nell’articolo 15, comma 5, del contratto del 1° aprile 1999, che consente di aumentare il fondo senza alcun limite nel rispetto della previsione contrattuale. Recentemente l’Aran ha sdoganato questo istituto consentendo agli enti una applicazione molto più semplice rispetto al passato.

CONTRATTI INTEGRATIVI

Per gli integrativi niente cumulo con i tagli 2011-14

fonte: ilsole24ore.com

Ragioneria generale. Le istruzioni in arrivo

Mentre la Corte dei conti offre notizie pessime sui contratti decentrati del passato, che secondo la sezione Lombardia non sono assoggettabili a sanatoria per gli anni dal 2013 in poi  e per la sezione giurisdizionale del Veneto sono fonte di danno erariale anche quando possibile oggetto della sanatoria, le novità in arrivo dal Governo sono positive per gli integrativi di oggi e del futuro.

Il prossimo passo è contenuto in una circolare della Ragioneria, non ancora pubblicata ma che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare, secondo cui i tagli da effettuare sui fondi decentrati da quest’anno replicano ma non si aggiungono a quelli prodotti negli anni scorsi in virtù delle norme che chiedevano di ridurre il fondo in proporzione alle cessazioni del personale. Se sarà confermata dalla firma del Ragioniere generale, la circolare metterà la parola fine sul dibattito fra la tesi dell’aumento progressivo dei tagli, sostenuta da alcune sezioni regionali della Corte dei conti e negativa per i dipendenti degli enti, e quella della replica senza sforbiciate aggiuntive, positiva per i dipendenti e promossa appunto dalla bozza di circolare.
Per capire l’importanza della questione occorre ricostruire il quadro normativo, come al solito complicato, che ha portato fin qui. Dal 2010 al 2014 l’articolo 9 del Dl 78/2010 (lo stesso «salvato» solo per il passato dalla Consulta nella parte in cui ha congelato i rinnovi dei contratti) ha imposto alle amministrazioni locali di bloccare il fondo decentrato entro il limite di risorse presenti nel 2010, e di alleggerirlo in proporzione all’alleggerimento del personale prodotto dal turn over. Dal 1° gennaio scorso è in vigore invece la nuova regola scritta nella legge di stabilità per il 2014 (comma 456 della legge 147/2013), in cui si dice che d’ora in poi le risorse annuali del fondo sono ridotte «di un importo pari» a quello tagliato per effetto delle vecchie norme.

La querelle si è scatenata intorno a quell’«importo pari», e si può riassumere così. L’ipotesi più “austera”, indicata da alcune sezioni regionali della Corte dei conti (per esempio la delibera 53/2015 della Puglia), portava al meccanismo dei “tagli sui tagli”, in base al quale le decurtazioni 2015 si sarebbero aggiunte (per un importo pari) a quelle già operate per le vecchie regole.

Opposta è la lettura nella bozza di circolare della Ragioneria generale, in base alla quale i tagli 2015 replicano ma non si aggiungono alle vecchie sforbiciate. Un’indicazione simile era stata prospettata nella circolare 8/2015, rivolta però alle amministrazioni dello Stato dove il quadro è più lineare. Per rendere chiaro il tutto la bozza propone anche un esempio numerico, che fuga ogni dubbio. Un Comune nel 2014 avrebbe avuto un fondo lordo da 110, che ha dovuto portare a 100 per rispettare il tetto 2010 e ridurre di altri 5 per aver perso nel tempo il 5% del personale. Il fondo 2014 è quindi di 95, cioè 110 meno 15. Nel 2015 lo stesso Comune, secondo l’esempio targato Rgs, ha un fondo lordo di 116 grazie alle varie risorse previste dalla normativa di riferimento: su questo valore lordo applica la riduzione «di pari importo» rispetto a quella operata nel 2014, cioè 15, per cui il suo fondo decentrato sarà di 101. L’esempio, in sostanza, nega che si debba sommare taglio a taglio, perché l’effetto deve essere quello di «storicizzare» la riduzione intervenuta negli anni scorsi ma non di replicarla in aumento. A ulteriore prova, la bozza di circolare affronta anche il 2016, in cui il fondo ripartirà, sempre per effetto delle norme di riferimento, da un valore lordo di 119: operato ancora una volta il taglio di 15, la dotazione si attesterà a quota 104. L’unica avvertenza è che il taglio deve considerare anche le quote che nel 2014 non sono state incluse nel fondo per rispettare il tetto del 2010: questo spiega perché nell’esempio il taglio da replicare sia di 15, e non solo dei 5 determinati dal turn over.

L’indicazione della Ragioneria, se confermata, va letta insieme alle Linee guida appena diffuse dall’Aran secondo cui le risorse della produttività ex articolo 15 comma 5 del contratto nazionale possono essere replicati quando gli aumenti del servizio vengono confermati di anno in anno, anche senza l’introduzione di ulteriori novità. Si tratta di un “uno-due” che offre parecchia flessibilità nella gestione dei decentrati.

VISITE FISCALI

La vittoria di Chiara sulle visite fiscali (di Giusi Fasano)

Fonte: corrieredellasera.it

Fa la chemio, sta male, non apre la porta a un controllo Inps e viene convocata. Si sfoga sul web, da lì parte tutto. Ora protocollo a suo nome per abolire le visite nei casi gravi

Questa storia è cominciata male. «E per forza!» racconta la voce di donna che arriva da Arco, in Trentino. «Vengono a casa mia per una visita fiscale mentre vomito l’anima e siccome non sento il campanello mi intimano di presentarmi a Trento. Trento, capisce? Cinquanta minuti di macchina da casa… e io non uscivo da giorni per i postumi della chemio… Mi sono infuriata. Ma come? Ho un linfoma che non mi dà tregua e tu mi ordini di venire da te a giustificarmi se non ti ho aperto la porta!».
Cominciata male, appunto. Con Chiara nera di rabbia, i suoi medici a pregarla: «Non puoi andare fino a Trento nelle tue condizioni», e lei a insistere: «Vado a dirgliene quattro, voglio proprio vederli in faccia quelli». Alla fine li ha visti, «quelli».

Li aveva immaginati incastrati nei loro ingranaggi burocratici e incapaci di umanità. Invece no. Sorpresa. La sua battaglia è durata un giorno soltanto. Perché all’alba del secondo «quelli» erano già dalla sua parte. «Non so se li ho spaventati con quel che ho scritto su Facebook o se ho trovato le parole giuste per portarli sulla mia strada, fatto sta che dopo la mia sfuriata tutto è cambiato, come per magia. E adesso mi sembra davvero incredibile che sia stata io a far cambiare le cose in così poco tempo e che da oggi in poi nessun medico busserà più alla porta di un malato grave per una visita fiscale».

Di sicuro non succederà più in Trentino, dove l’Inps ha approvato un documento che ha dedicato a lei chiamandolo «protocollo Chiara», ma presto non accadrà più nemmeno nel resto d’Italia, perché la sua storia è arrivata sui tavoli della politica romana e in Parlamento si sta lavorando a un decreto legge che chissà, magari sarà ancora una volta intitolato a lei, Chiara Dossi. Per adesso il protocollo, quello trentino, stabilisce che i pazienti con malattie gravi documentate (per esempio i malati oncologici) siano esentati dai controlli medici domiciliari se non possono lavorare «per lo stato avanzato della malattia o perché hanno in corso trattamenti salvavita o terapie particolarmente debilitanti», spiega il direttore regionale dell’Inps, Marco Zanotelli. «Chiediamo ai medici di seguire il percorso e la gravità della malattia e ci affidiamo alle loro valutazioni espresse attraverso un codice che viene trasmesso al nostro istituto. Tutto questo in attesa della legge nazionale che deciderà anche per i lavoratori privati quello che è già stabilito per i dipendenti pubblici, e cioè l’esclusione dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità oraria per i malati gravi».

Sociologa, direttrice e presidente di una cooperativa sociale, 38 anni, Chiara ha scoperto di avere il linfoma di Hodgkin a febbraio. «Mio fratello è un medico, se n’è accorto lui valutando i sintomi che avevo. Era il giorno 18, da allora la mia vita è stata altro». I cicli di chemio e radioterapia, una trombosi, un’infezione, problemi polmonari e una fatica immensa per affrontare ogni santo giorno. Ma Chiara non è una donna che ha paura della vita, fronteggia tutto guardando avanti, verso la guarigione. E prova a riprendersi la normalità quotidiana che la malattia le ha portato via. «Anche per questo mi sono arrabbiata davanti a quella lettera così imperativa che mi convocava a Trento. Io dico: come può ritrovare un po’ di normalità una persona nelle mie condizioni che per il timore di una vista fiscale non può nemmeno uscire a passeggiare un po’ dopo che è stata da schifo per via della chemio?».

Dopo l’invito (o forse è meglio dire l’ordine) dell’Inps a presentarsi nella sede centrale del capoluogo, Chiara ha affidato la sua rabbia alla tastiera del computer e a Facebook. Era l’inizio di giugno.

«Ho scritto la cronistoria della vicenda e ho concluso: io vado all’Inps, ma poi non me ne vado da lì finché non trovo qualcuno disposto ad assumersi la responsabilità di avermi fatto fare questo viaggio. Il mio post è arrivato a consiglieri provinciali e altri politici locali che conosco, ho cominciato a ricevere chiamate, proposte di aiuto. Nel giro di poche ore il mio messaggio è esploso, non sono più riuscita a controllarlo. Ne ha parlato la stampa locale, qualcuno mi ha detto che non era un problema, che avrei potuto non andare. Ma a quel punto non era più soltanto un fatto personale, ho pensato agli altri malati, forse la mia battaglia poteva servire a tutti».

Per convincerla a desistere l’ha chiamata Zanotelli in persona. «Mi ha spiegato che le visite di controllo le sceglie un computer, mi ha chiesto un contributo per trovare una soluzione. Mi è sembrato sincero, dispiaciuto, e mi sono fidata di lui. Due giorni dopo eravamo a casa mia a studiare quella soluzione, mentre alcuni deputati trentini portavano la questione in Parlamento. Per me è stata una lezione di vita. Ho capito che se noi cittadini imparassimo a dialogare un po’ di più con le istituzioni forse sarebbe tutto più semplice. Il mio caso è la dimostrazione che esiste un punto di incontro fra la buona politica, la società civile e l’amministrazione pubblica. È partita male ma è diventata una bella storia, mi sono sentita capita e umanamente sostenuta. Non è poco…».

UNIUTÀ SINDACALE

Se i sindacati dei pensionati già marciano uniti (di Valeria Fedeli)

Fonte: unita.it

In questi giorni i sindacati dei pensionati di CGIL, CISL e UIL, stanno chiedendo incontri ai parlamentari dei loro territori per discutere, sulla base di un documento unitario che hanno redatto, degli effetti della sentenza n° 70 de110 marzo 2015 che ha dichiarato incostituzionale il blocco della rivalutazione delle pensioni. La sentenza ha messo in chiaro che il blocco imposto dai Governi precedenti deve essere superato, ed il Governo è intervenuto con urgenza per correre ai ripari nella misura in cui possibile, date le finanze pubbliche, privilegiando giustamente prima di tutto le pensioni più basse, con meccanismi di progressività inversa: dare di più a chi ha meno, mantenendo un`impostazione coerente con il bisogno di rispondere alle necessità di quei pensionati con pensioni medie che spesso sono il pilastro di un welfare familiare ancora forte nel nostro Paese. Adesso serve un passo in avanti, l’unitarietà con cui viene chiesto il confronto è già un fatto di per sé positivo che rafforza le loro richieste e si propone di allargare la discussione su un piano più generale, partendo dalla constatazione del ruolo dei pensionati nelle famiglie al tempo della crisi, dalla perdita di potere d`acquisto che li ha visti travolti dall`inflazione negli ultimi anni che, ben più alta su alcuni beni di consumo rispetto al paniere generale, ha reso necessari per loro sacrifici che si sono ripercossi anche sulle famiglie.

La piattaforma dei tre sindacati – prosegue l’articolo – chiede poi un tavolo di confronto al Governo su temi che vanno molto oltre il rimborso e la nuova modalità di indicizzazione: la modifica della legge Fornero, la riapertura della discussione sugli 80 euro, la discussione sulla no tax area da estendere anche a loro, una legge nazionale sulla non autosufficienza, la riduzione della pressione fiscale e infine la rivalutazione delle pensioni all`inflazione di modo che garantisca maggiore equità. Il 16 luglio avranno un incontro con il ministro del lavoro Giuliano Poletti per mettere sul tavolo la loro disponibilità a collaborare col Governo su queste materie: una collaborazione che, dicono, non sarà un lobbismo generazionale, non una battaglia per privilegi o diritti acquisiti da conservare a tutti i costi, ma un impegno in cui sono disponibili a discutere modifiche e scelte anche difficili, purché siano funzionali a garantire giustizia, equità e attenzione verso le generazioni future. Che poi sono i loro figli e nipoti. Per questo vorrei che fossero ascoltati, che si aprisse con loro una discussione vera, che non sia un modo per dilatare i tempi e non decidere mai, ma uno strumento per arricchire le scelte del Governo e del Parlamento.

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIGITALE

Le PMI e la digitalizzazione della PA

fonte: cna.it

Quasi un imprenditore su due apprezza la svolta digitale della Pubblica Amministrazione. Lo rivela un sondaggio condotto dalla CNA tra un campione di circa 3mila imprese rappresentativo di artigiani e piccole imprese, che conferma il forte interesse del sistema produttivo per l’Agenda Digitale. Questa, a regime, potrebbe produrre benefici stimati in circa 70 miliardi di euro, di cui 25 a vantaggio delle imprese.

Non è un caso che nel corso del 2014 sia aumentato in maniera significativa anche il livello di digitalizzazione delle imprese italiane. Nel dettaglio, il 98,2% delle aziende dispone di una connessione Internet (+1,4% sul 2013), il 69,2% ha un sito web (+1,9%), il 31,8% utilizza un social network (con un balzo del 7,1%). La crescita dell’Ict all’interno delle imprese, insomma, si delinea come un elemento di contrasto alla crisi.

Non sempre, purtroppo, l’interfaccia burocrazia si mostra all’altezza della situazione anche se, secondo le Pmi, negli ultimi tempi la Pubblica Amministrazione ha fatto importanti passi in avanti. Si tratta di progressi significativi ma non ancora sufficienti a soddisfare le esigenze operative delle imprese che, giustamente, chiedono di più. Dal sondaggio della CNA emerge che il 3,9% degli interpellati è molto soddisfatto del livello di informatizzazione pubblico e il 43,5% ritiene possibile miglioramenti. Viceversa, il 53% lo giudica ancora inadeguato e difficilmente accessibile, come testimoniato dal numero ridotto di pratiche burocratiche effettuate on line. Infatti, in media, solo una piccola impresa su tre (il 29% circa della platea) riesce a sbrigare oltre la metà delle sue pratiche per via telematica. Colpa anche della struttura dei siti: a fronte del 59,1% che la ritiene buona o migliorabile, il 40,9% delle Pmi interpellate la giudica inadeguata. Eppure, il 41,8% delle imprese è convinto che una maggiore e migliore informatizzazione dell’amministrazione pubblica permetterebbe una sensibile riduzione dei costi operativi.  

Sul sito è possibile scaricare un estratto dell’indagine

AGENZIA DELLE ENTRATE – IMMOBILI

Rapporto sugli immobili in Italia 2015

Fonte: agenziaentrate.gov.it

Gli Immobili in Italia 2015, alla quinta edizione, consolida e aggiorna le analisi e i dati contenuti nelle pubblicazioni precedenti: caratteristiche dei proprietari di immobili, distribuzione, concentrazione e struttura del prelievo sulla ricchezza e sui redditi immobiliari. Lo studio è stato realizzato dagli esperti del Dipartimento delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate, in collaborazione con Sogei. 
Lo studio si articola in sette capitoli: i primi due, dedicati all’analisi degli utilizzi degli immobili e
all’analisi territoriale del valore del patrimonio abitativo, approfondiscono la conoscenza del tessuto residenziale urbano a livello regionale, comunale e sub-comunale, e nelle tre principali metropoli italiane (Roma, Milano e Napoli). 
A partire dal terzo capitolo, l’indagine si sposta sugli aspetti relativi alla fiscalità immobiliare, concentrandosi sulla distribuzione della proprietà e del patrimonio immobiliare sul territorio nazionale, in relazione alle caratteristiche socio-demografiche ed economiche dei proprietari. L’analisi comparativa delle strutture impositive dei principali Paesi europei è contenuta nel quarto capitolo, mentre nel quinto l’attenzione si focalizza sul prelievo sugli immobili in Italia, seguendone l’evoluzione fino agli sviluppi recenti.
 
Nel sesto capitolo si illustra la metodologia di calcolo del cosiddetto “tax gap” della tassazione immobiliare, ovvero della differenza tra gettito potenziale e gettito riscosso dalle imposte immobiliari. Conclude il volume il capitolo dedicato ai criteri e ai metodi utilizzati nell’elaborazione dei dati.
 

Link all’indagine: http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/nsilib/nsi/agenzia/agenzia+comunica/prodotti+editoriali/pubblicazioni+cartografia_catasto_mercato_immobiliare/immobili+in+italia/gli+immobili+in+italia+2015

Di TH